Governi del mondo industriale, stanchi giganti di carne e acciaio, io vengo dal cyberspazio…

Sono passati 20 anni dalla Dichiarazione d’indipendenza del cyberspazio per l’autogoverno della Rete.

John Perry Barlow (1947-2018)

“Governi del mondo industriale, stanchi giganti di carne e acciaio, io vengo dal cyberspazio, la nuova sede della mente. Per il bene del futuro, chiedo a voi del passato di lasciarci in pace. Non siete i benvenuti tra noi. Non avete sovranità là dove ci siamo riuniti”.

Questo l’incipit della Dichiarazione d’indipendenza del cyberspazio. Ve la ricordate? Mai sentita nominare? Nell’un caso o nell’altro, un po’ di storia non guasta: in questi giorni ricorre il ventesimo anniversario dalla sua stesura. Era inizio febbraio 1996 quando John Perry Barlow (rancher, journo-activist, co-fondatore della Electronic Frontier Foundation nel 1990) decise di rispondere così alla notizia che il Congresso Usa aveva approvato (con solo 5 voti contrari) il Telecommunications Act, la prima volta in cui si provava a regolamentare (anche) la nuova creatura internet.

Tutto ciò con la tipica scusa del materiale osceno, tra norme grossolane e insensate. Insieme alle attività repressive avviate da alcuni anni a livello internazionale, a partire dalla Operation Sundevil ai danni dei primi attivisti informatici animatori della rete di Bbs statunitensi, molte delle quali vennero chiuse, con 27 mandati di perquisizione in 14 città e il sequestro di attrezzature e materiale vario. In modo simile a quanto successe d’altronde nel nostro Paese, con l’Italian Crackdown del maggio 1994: dalla procura di Pesaro partono 173 decreti di perquisizione per una serie di sequestri a tappeto in tutt’Italia, che mettono KO il circuito nascente delle Bbs amatoriali e colpiscono perfino le attività di ‘telematica per la pace’ di Peacelink, stavolta con la scusa del software piratato (ai danni del monopolista di allora, Microsoft, in particolare).

Communication Decency Act: le multe a chi usa Internet

Nello specifico, come racconta lo stesso Barlow nel “commemorare” quell’occasione, la legge Usa (allora nota con il significativo titolo di Communications Decency Act), “prevedeva fino a 250.000 dollari di multa per chi scriveva online termini osceni…[ed] era l’ampia affermazione di poteri incostituzionali e privi di base legale in qualsiasi altro Paese del mondo”. Da qui l’urgenza di stilare un “manifesto per ribadire la naturale anti-sovranità dello spazio sociale globale che avevo iniziato a chiamare cyberspazio sette anni prima”.

Fra l’altro la Dichiarazione fu il primo, concreto esempio della potenza della viralità digitale senza frontiere. Pur con gli strumenti primitivi di allora, in poche settimane almeno 10.000 siti web lo ripresero variamente, traduzioni incluse. Mailing list, forum di discussione e inbox personali lo rilanciavano a spron battuto. A conferma che le radici del ‘popolo di internet’ erano (e sono) ben ferme contro le ingerenze delle nazioni-stato, l’autorità e la censura, a sostegno della massima circolazione dell’informazione e della libertà d’espressione in ogni sua forma.

“Stiamo creando un mondo in cui tutti possano entrare senza privilegi o pregiudizi basati sulla razza, sul potere economico, sulla forza militare o per diritto acquisito. Stiamo creando un mondo in cui ognuno in ogni luogo possa esprimere le sue idee, senza pregiudizio riguardo al fatto che siano strane, senza paura di essere costretto al silenzio o al conformismo. Noi creeremo nel cyberspazio una civiltà della mente. Possa essa essere più umana e giusta di quel mondo che i vostri governi hanno costruito finora”.

Entusiasmo alle stelle e visioni di giustizia a non finire. Gettando così le basi per la creazione di un mondo ‘altro’, autonomo e paritario, il cyberspazio, che spettava comunque a noi costruire e mantenere indipendente. Un incitamento ideale per aggregare le tante anime in fieri di quel mondo sotterraneo in fase emergente. E per sbattere in faccia all’attenzione pubblica, e ai disattenti media di allora, quel che di lì a breve sarebbe emerso come il motore dei profondi cambiamenti socio-economici-politici dell’odierna età digitale.

Inevitabile, a 20 anni di distanza, chiedersi: esiste ancora questo mondo? Anzi, siamo mai riusciti a crearla questa “civiltà della mente”? Hanno senso quei proclami oggi, nell’era dei social media e del mobile 24/7, in un contesto (digitale ma non solo) profondamente diverso dal 1996? Certo è che rileggere (o leggere per la prima volta) oggi quel testo offre un utile spaccato storico e culturale proprio su come e quanto siano cambiate le cose, a partire dall’auspicato cyberspazio che non è certo diventato così “indipendente”, anzi.

I big player di Internet: il lato oscuro della forza

Oggi conosciamo bene il potere acquisito dai colossi high-tech e dagli algoritmi per tutti i gusti, come pure il vaso di Pandora aperto dalle rivelazioni di Edward Snowden sul monitoraggio industrial-statale nelle società democratiche, insieme alle annesse persecuzioni legali contro i whistleblower di ogni ambito. Oltre che ai danni di chi persegue attività online ritenute tuttora ‘controverse’ ma certamente cruciali per tantissimi di noi cyber-cittadini e per la società intera, quali file-sharing, no-copyright e open access.

Tutte situazioni impossibili da immaginare allora, ovviamente, pur se le lacune di quella Dichiarazione rivelano la cecità (voluta?) dei cyber-libertariani sul nuovo tecno-potere emergente e le sue ampie ricadute sociali, dal digital divide sempre presente tra Nord e Sud del mondo alla nascita di movimenti ‘antagonisti’ come Occupy e Anonymous. Ovvero, Barlow è sempre stato aperto propugnatore del neo-liberismo, e anzi già ben addentro al gotha dell’economia mondiale: la Dichiarazione è stata buttata giù durante il party di chiusura dello staff al Forum economico mondiale di Davos del 1996.

Ma al di là di simili ingenuità, il testo va comunque ammirato per la chiarezza di certe previsioni (soprattutto l’onda lunga delle intrusioni governative e la necessità di auto-organizzarsi e rispondere per le rime) e il pressante invito a creare autonomie online di pluralismo e confronto, a darsi da fare sul fronte della produzione e della distribuzione di contenuti (e cultura) creati in prima persona. Puntando comunque a creare un mondo ‘reale’ migliore. O comunque di provarci seriamente e collaborativamente.

L’autogoverno è ancora possibile

Certo, c’è chi sostiene (e a ragione, per certi versi), che quello di oggi “non è più il cyberspazio” e che il sogno di un’internet e di un mondo “più umani di quello che vorrebbero imporci i governi” è stato (irrimediabilmente?) inghiottito dai mostri high-tech in primo luogo. E quindi dobbiamo tenere gli occhi ben aperti per assicurarci in futuro un’internet davvero ‘free and open’. Ma è pur vero che la Dichiarazione include messaggi di super-attualità tutt’altro che trascurabili: incitare a percorsi di trasversalità e contaminazione, decentramento e hacktivismo, in un’epoca di massima centralizzazione di testate, socialità, contenuti. Un appello al monitoraggio attento sui pericoli dei lucchetti alla conoscenza e del controllo diffuso, entrambi ormai integrati nei gadget di uso quotidiano. Un invito pressante ai cittadini vecchi e nuovi del cyberspazio a (ri)prendere in mano il ‘bene comune internet’, per attivarne al meglio le potenzialità creative e la partecipazione dal basso sul territorio. Insieme all’importanza di un approccio critico sul digitale nel senso più ampio, altra specie in via d’estinzione nell’online odierno.

Da qui l’urgenza di rimboccarsi le maniche e insistere con pratiche di cambiamento bottom-up, online e offline. Senza nostalgia ma anzi anticipando l’attualità. Come continuano a fare tanti attivisti e cittadini in molte aree del pianeta (elettrico), incluse le varie realtà nostrane in movimento: dai maker alle battaglie sui diritti digitali, dall’innovazione consapevole alle iniziative a tutto campo sui commons. Perché, altro motto tipico in Rete negli anni della Dichiarazione di Barlow e meritevole di un attento revival:  what it is > is up to us.

Bernardo Parrella, febbraio 2016

Incluso nel libro “Il futuro trent’anni fa” (Manni), a cura di Laura Abba e Arturo Di Corinto


Nel caso (improbabile) che qualcuno atterri su questo blog, com’è ovvio non lo aggiorno più da tempo. Però ciò non vuol dire che non sia attivo online, anzi. Oltre a traduzioni di testi USA per Egea/Bocconi (l’ultimo è Rewire di Ethan Zuckerman, primavera 2014), alcuni dei mei interventi recenti li trovate fra l’altro su Chefuturo.it, Collaboriamo.org, Lsdi.it. Per eventual contatti, sono sempre qui. Thanks & buona giornata 🙂

PS: Ecco anzi una mia panoramica sul nuovo, promettente social network Ello (dove giro come berny14)


VpsPiccolo annuncio utile: Lunedì 28 maggio, ore 18-20 italiane, curo questo webinar gratuito: Testimoni e protagonisti: citizen journalism per la cittadinanza attiva — come parte del programma “Ong 2.0” di Volontari per lo Sviluppo. E come anteprima, ecco un’intervistina volante su domande di Serena Carta. See you there, e spargete la voce, please! 😉


La strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni. L’antico adagio descrive perfettamente la piccola storia che gira in questi giorni in alcuni circoli online nostrani, denominata “Manda Tigella a occupare Chicago!”. In breve, Claudia Vago chiede ai netizen contributi economici per pagarsi viaggio più alloggio, vitto, ecc. a Chicago per 10-20 giorni a inizio maggio.

Rispondendo un commento critico sul suo blog, a questo fatto della stanza d’albergo, Claudia replica: “Non credo che resterò tutto il tempo all’accampamento: io vado per raccontarlo, non per occupare. Cercherò di dormire lì qualche notte, ma mi servirà un post tranquillo in cui rimettere insieme i materiali da pubblicare, ogni giorno, nel sito”. Il punto sembra essere insomma, non l’attivismo di per sè bensì quello di seguire in loco il movimento Occupy e poi produrre (in modo alquanto vago, no pun intended 😉 “materiali multimediali che (ne) raccontino l’organizzazione”.

Ciò ha dato vita a un tam-tam preventivo alquanto assurdo e controproducente, neppure si trattasse di chissà quale evento storico per la Rete italica. Oltre a vari rilanci del tutto acritici, quasi di ‘default’, non manca chi ci appiccica l’inevitabile etichetta di “futuro del giornalismo”, altri rilanciano frasi ad effetto sulla disintermediazione dell’informazione — con toni che non nascondono acuti di ideologia e auto-referenzialità. Ne esce fuori un quadro dal sapore approssimativo, poco ponderato e tutto sommato superfluo.

Pur nel suo piccolo, da anni LSDI (a cui collaborano persone legate a testate tradizionali, dei new media e del citizen journalism, inclusi progetti collaborativi di respiro internazionale) scandaglia sia la Rete sia il mondo dell’informazione per partecipare, documentare e appoggiare i vari “giornalismi possibili”. Questa volta segnaliamo però un caso di giornalismo mancato, non tanto per criticare il progetto in sè, quanto piuttosto perché il puzzle sconnesso, e acriticamente massificato, che ha preso forma in questi giorni danneggia anche quel che di buono c’è nell’ idea stessa. Un guazzabuglio che provoca un rumore di fondo e un pressapochismo che risulta controproducente per l’informazione in generale — e ancor più per il “futuro del giornalismo”, qualunque forma questo dovesse assumere.

OWS (Occupy Wall Street) è già fin troppo coperto sui social media (e sul mainstream). Per sua genesi e natura, il movimento OWS è stato (lo sarà anche a Chicago e dopo) uno dei temi che più e meglio usa i social media e internet per farsi sentire, senza filtri e a modo proprio. Basta fare semplici ricerche sul web, nella blogosfera, su Twitter, YouTube o altrove. Gli attivisti hanno prodotto (e producono) una mole incredibile di materiali multimediali. Su Amazon sono disponibili a pochi dollari diversi e-book autoprodotti con documenti originali, riflessioni, resoconti dettagliati. Un libro cartaceo (il cui ricavato andrà tutto al gruppo di New York che lo ha curato) è uscito da poco per OR Books e sta per arrivare in Italia presso un editore molto grosso. Analogamente, pressoché ogni testata mainstream del mondo ha seguito le vicende di OWS finora (e seguirà l’evento di Chicago), spesso e volentieri rilanciandone gli stessi materiali autoprodotti diffusi online, oltre ovviamente ad aggiungervi proprie analisi condivisibili o meno.

C’è quindi bisogno di ulteriori “corrispondenti”? Cosa potrà raccontare Claudia che già non viene diffuso dagli stessi attivisti online? Ha senso creare ulteriore rumore online? Forse l’unica utilità è quella della lingua, ma molto materiale è visuale/multimediale e ormai in Italia tanti masticano un po’ d’inglese (soprattutto fra i netizen), esiste ‘Google translate’, la lingua non è affatto un elemento cruciale.

Esiste un valore aggiunto d’informazione in questa idea? C’è stato forse un ‘furor di popolo (della Rete)’ che ha chiesto a Claudia di fargli da ‘corrispondente’ in loco? Non sembra, oppure se è così non sembra che venga fuori dal suo progetto, che molte persone affermano di voler finanziare un po’ acriticamente. E in definitiva, c’è davvero bisogno di “corrispondenti” dei social media, e non piuttosto di semplici editor o curator, più che mai nel caso della copiosa produzione di OWS (vedi sopra)?

[ il post prosegue nella sua sede originaria, su LSDI.it, dove se ne discute variamente nei commenti ]


Il 28 gennaio è International Privacy Day, a contrassegnare la data in cui venne ufficialmente firmato il trattato a tutela della privacy, concordato da e vincolante da gran parte delle nazioni occidentali (28 gennaio 1981). La ricorrenza viene celebrata in Nord-America e nei 27 Paesi della UE, dopo la prima del 2009 a seguito della risoluzione approvata dal Congresso USA con il nome di “Data Privacy Day“.

Diversi gli eventi locali in programma, inclusi quelli predisposti in varie città europee. In particolare la conferenza internazionale Computers, Privacy & Data Protection in svolgimento a Bruxelles (25-27 gennaio), evento che punta a creare “un ponte di dialogo tra legislatori, accademici e attivisti”.

Quest’anno l’accento viene posto sulle recenti minacce alla privacy portato da varie legislazioni (o proposte), insistendo soprattutto per la rimozione delle norme che obbligano i governi alla cosidetta “data retention”. Ovvero, citando Wikipedia italiana:

La data retention è la raccolta automatizzata di dati al fine di poter supportare gli organi di indagine in caso di eventuali investigazioni. Prima delle riforme sulla sicurezza, era necessario un decreto emesso da un PM per la raccolta di dati ai fini investigativi. Con la decentralizzazione delle tecnologie dovuta ad Internet, numerosi privati si sono trovati investiti della responsabilità della raccolta obbligatoria e generalizzata dei dati personali.

Mentre la Electronic Frontier Foundation chiarisce:

La data retention obbligatoria danneggia l’anonimato, che è cruciale per ‘whistle-blower’, investigatori, giornalisti e per garantire comunque la libertà d’espressione a livello politico. Ciò crea invece enormi potenziali per abusi legali ed è una grave limitazione ai diritti e alle libertà di tutti gli individui.

Sei anni fa la UE ha approvato la controversa Data Retention Directive, sulla forte spinta delle lobby USA e britanniche, obbligando così i provider Internet e telefonici a raccogliere e conservare i dati del traffico relativo alle comunicazioni via email, telefono e SMS dei propri utenti — per possibili usi da parte degli organi di polizia. Pur con molte e continue critiche, incluse manifestazioni pubbliche contro quest’eccessiva sorveglianza, la normativa rimane tuttora in vigore.

Tant’è che finanche l’ufficio dell’European Data Protection Superivisor ha appena diffuso un comunicato in cui, pur congratulandosi con la Commissione Europea per la riforma in corso, lamenta la mancanza di precise regole per il trasferimento di dati personali al di fuori della EU e la mancata regolamentazione per l’accesso ai dati da parte del settore privato. La bozza della riforma per “un’Europa digitale unita” prevede inoltre di “porre fine all’attuale frammentazione tra i 27 e alla gravosità degli oneri amministrativi, permettendo alle imprese risparmi per circa 2,3 miliardi di euro l’anno.” Oltre al diritto a «essere dimenticati»: grazie alla nuova legge, gli utenti potranno chiedere la cancellazione dagli archivi elettronici dei dati che li riguardano e le imprese saranno tenute a farlo, a meno che non ci siano «legittimi» motivi per la conservazione.

Data Privacy DayFra i vari eventi previsti online, la National Cyber Security Alliance statunitense propone per domani un Facebook Live-stream per discutere questioni al crocevia tra privacy e sicurezza online. La stessa organizzazione offre un’ampia serei di risorse e strumenti per consentire ai cittadini di tutelare la propria privacy non solo sul web, ma anche nell’uso dei social media e dei cellulari. Proprio in questi giorni, anzi, c’è stata la revisione dei termini sulla privacy annunciata da Google: “l’azienda potrà usare le informazioni, condivise nell’ambito di uno dei servizi usati, anche in altri servizi di Google”. Ennesima decisione che va suscitando sospetti e critiche da parte dei netizen, pur se e’ vero che Google ha aderito alla US-EU Safe Harbor Program, iniziativa per facilitare i rapporti tra imprese USA e le istituzioni e le leggi dedicate alla privacy degli Stati membri della Comunità europea. Senza ovviamente dimenticare le annose problematiche legate alla privacy di Facebook e altri social media, a cui è dedicata un’ampia sezione dell’Electronic Privacy Information Center con documenti e risorse sempre utili.

Nel complesso, l’International Privacy Day sarà un’ottima occasione per ampliare il dibattito sui temi caldi per il digitale. Perché, dopo il successo delle proteste della scorsa settimana contro il SOPA e il PIPA, occorre tenere gli occhi ben aperti sulle continue minacce alla libertà della Rete, sotto forma di normative presumibilmente tese a colpire pirateria e criminalità ma di fatto lesive della privacy individuale e favorevoli alla sorveglianza. E pur se spesso ciò parte dagli USA, gli effetti concreti colpiscono il resto del mondo.

Come ribadisce Rebecca McKinnon, co-fondatrice di Global Voices Online e autrice di Consent of the Networked: The Worldwide Struggle for Internet Freedom, un libro in uscita fondamentale su queste e annesse tematiche a livello mondiale:

Nell’era di Internet è inevitabile che corporation e agenzie governative abbiamo accesso a dettagliate informazioni sulla vita della gente. Siamo noi stessi a condividere liberamente dati personali su siti aziendali in cambio dell’uso di prodotti e servizi.Ma abbiamo fallito nell’affrontare il conseguente dilemma: come prevenire l’abuso del potere che abbiamo volontariamente delegato a Stato e aziende? … È vitale richiedere una chiara visione sul modo in cui le autorità prevedono di tutelarci dagli abusi della sorveglianza statale tramite le piattaforme digitali private da cui dipendiamo sempre più.

[ Articolo pubblicato su LaStampa.it il 27/01/2012 ]


Ieri 18 gennaio è stato un giorno importante per Internet. Migliaia i siti oscurati o con una pagina interstiziale per protestare contro le iniziative "anti-pirateria" SOPA e PIPA in discussione al Congresso USA. Siti web come Google e Twitpic, insieme a gruppi e individui della società civile, si sono uniti in una causa comune: protestare contro due disegni di legge statunitensi che potrebbero avere effetti negativi per la libertà d'espressione online in tutto il mondo.

Questi intanto alcuni aggiornamenti dagli USA a fine giornata:

– La sezione pomeridiana di news su National Public Radio ha aperto con vari servizi sulla vicenda, spiegando innanzitutto che il "Congresso sembra ripensarci sulla proposta anti-pirateria" (Congress Backs Off Anti-Web-Piracy Bill). Per passare poi al black-out di Wikipedia e a come aggirarlo per i tanti studenti e cittadini che la consultano ogni dì per i motivi più disparati.

Politico.com, la testata web forse più addentro al Palazzo, ribadisce che qualche co-firmatario del SOPA fa marcia indietro e segnala come 'tweet' del giorno quelli dell'attore Ashton Kutcher ("Questo è un importante momento storico!) e del rapper Snoop Dogg: #sopastrike.

– Secondo un altro sito di 'insider', The Hill, il PIPA appare comunque destinato a procedere, grazie in prims alla spinta del leader di maggioranza al Senato, il democratico Harry Reid.

– Su Twitter continua a tamburo battente il flusso degli hashtag #SOPA e #stopsopa, inclusi rilanci ad articoli in cui, come questo di Mashable, si spiega "perché Sopa e Pipa non potranno fermare la vera pirateria".

– Su Reddit un sysadmin (amministratore di sistema) offre utili e ragionevoli riflessioni sulle potenziali minacce all'architettura aperta della Rete, nel caso queste prposte legislative deovessero passare. E il giornalista tecnologico Dan Gillmor rincara la dose, suggerendo che, prove alla mano, "i censori non capiscono come funziona Internet".

Infine, un post di Global Voices riassume reazioni e testimonianze odierne dei netizen a livello internazionale.

[ Ripreso da Voci Globali su LaStampa.it, 19/01/2012 ]


CodeYearLa risoluzione per il 2012 del Sindaco di New York City è quella di imparare a scrivere codice informatico tramite i corsi online, gratuiti e divertenti, offerti da un nuovo progetto cittadino, Codecademy. Il suo tweet al riguardo di qualche giorno fa, con annesse repliche e retweet, non ha mancato di sollevare una certa attenzione su testate e siti internazionali. Ammiccamento a elettori e industria high-tech? Stupidata o demagogia? E pur con tutta la passione tecnologica mostrata dal magnate Michael Bloomberg, non sono mancati commenti ironici.

Domande e reazioni scontate. Ma ben vedere, l’episodio va considerato solo la punta dell’iceberg, o il dito che indica la luna. Meglio non dimenticare quanto sta sotto e meno che mai equivocare.

Intanto, qui si tratta di dare visibilità a un’encomiabile iniziativa: CodeYear, semplici lezioni e corsi interattivi via web per apprendere in 365 giorni le basi della scrittura di codice informatico. A poco più di un mese dal lancio, oltre mezzo milione di persone hanno usato il sito, completando oltre sei milioni di esercizi. Mentre sono 328.670 gli iscritti formali a CodeYear (al momento di scrivere questo articolo) e oltre 800 gli sviluppatori che hanno messo a disposizione le brevi lezioni sul sito, nel tipico stile del crowdsourcing. Il tutto sotto la spinta di Zach Sims e Ryan Bubinski, i quali, mollata anzitempo la Columbia University, hanno trovato gli sponsor per concretizzare la loro ‘folle’ idea: democratizzare il codice. Come Johannes Gutenberg aveva democratizzato il testo nel 1439, con l’invenzione della macchina da stampa. E come in fondo facciamo ogni giorno su internet, mixando e integrando contenuti, creando materiale originale o anche solo ‘tweet’ istintivi, ma subito condivisi tramite i social media. Tutte pratiche tese a democratizzare la comunicazione e la creatività.

Ciò vuol forse dire che dobbiamo diventare tutti programmatori? Nient’affatto. Pur se, soprattutto per i nativi digitali, la scelta va ponderata almeno quanto basta per spianarsi la strada verso un futuro più remunerativo in tutti i sensi, non solo economicamente, sull’onda dello sviluppo globale della società dell’informazione. Il punto è che, contestualizzando un attimo la questione, man mano che partecipiamo del mondo digitale, dobbiamo imparare a districarci in sistemi operativi e social network creati da altri con intenti spesso ben diversi dai nostri e in realtà poco avvezzi a modalità aperte, orizzontali. Non è un mistero che l’high-tech butta soldi nelle reti sociali perché le ritengono forte strumento di marketing, né che i giganti online ci invitano in luccicanti comunità per poi recintarle, riempirle di pubblicità e servizi a pagamento, per non parlare del mancato rispettto della privacy. Per dirla tutta, i veri clienti di Facebook sono gli inserzionisti (e a breve gli azionisti), non certo noi semplici utenti. E in uno scenario web sempre più simile all’odiata TV, diventa cruciale acquisire un minimo di “media literacy” e di alfabetizzazione digitale per capire meglio cosa succede dietro le quinte e come poter rispettare i tradizionali contratti sociali, allo scopo di ri-umanizzare la cultura online e di riappropriarci degli strumenti partecipativi propri del digitale.

Ne scaturisce che il motto “Programma o sarai programmato” — titolo di un delizioso libretto del 2010 dell’attivista culturale Douglas Rushkoff, di prossima uscita italiana — diventa un invito propositivo all’azione di base, alla spinta verso una progettualità dinamica e partecipativa per potersi divincolare dal controllo, strisciante o palese, che governi e corporation di ogni parte del mondo vorrebbero continuare ad esercitare. Un filo rosso che collega fra loro le BBS degli anni ’70 in Usa e reti quali FidoNet dei primi ‘90, il software libero e open source, le mille facce del giornalismo partecipativo e gli standard aperti e le licenze Creative Commons, fino all’attuale esplosione dell’internet sociale nelle sue varie forme.

Insomma, se una figura pubblica cerca di offrire un segnale di taglio culturale, perché mai stracciarsi le vesti? E darsi al facile cinismo politichese? Magari anche in Italia amministratori e cittadini decidessero, per una volta, di dare simili segnali e apprendere insieme a scrivere stringhe, sull’onda di iniziative come CodeYear. Lavorando in modo collaborativo per democratizzare il codice e per democratizzare internet.

[Articolo pubblicato il 14/1/2012 su LaStampa.it ]


collected @ 11pm on June 29

Rain! I hope it's raining on the #LasConchas fire! Thank you G-d! http://yfrog.com/gzy0evtj
Photo by rabbiberel on twitter

Here's the view this evening in Los Alamos. Lots of smoke. The air is thick. #LasConchas #nmfire http://yfrog.com/khxdhaj
Photo by susanmbryanNM on twitter

View of the #lasconchas wildfire Sierra Del Norte Santa Fe 26 June #nmfireinfo #fireinfo http://yfrog.com/khw7zgj http://yfrog.com/kfh2imj
Photo by BudgetLuxuries on twitter

NASA MODIS Terra satellite view of Las Conchas fire today #nmfire #nmfireinfo #LasConchas http://yfrog.com/h82z8jcj
Photo by RustyB52 on twitter

Pajarito webcam loc w/ last nights fire map. 28 July http://yfrog.com/kh3arp h/t @BWells Hope I got it right. #nmfire #lasconchas
Photo by wheresmytab on twitter

Here’s a Google Maps shot of #LasConchas fire start-up spot: right at the green arrrow: http://t.co/cCu35bZ #NMFire
alexheard
June 30, 2011
http://bit.ly/kTvr2b #NMFIRE SOCIAL: News from the Inferno, All in One Place (santa fe reporter) #nmfire #lasconchas #wildfire
berny
June 30, 2011
#lasconchas #nmfire Hug a firefighter for me, will you? Hometown Los Alamos still protected, easing my mind from so far away. #fb
jesscullinan
June 30, 2011
basic crowdmap tool to report fires, incidents – if anybody interested in helping out: http://bit.ly/jdHnHA #wildfire #lasconchas #nmfires
berny
June 30, 2011

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NM wildfires

29Jun11

Citizen media and mixed content about the current wildfires here in New Mexico…

Famous last words? Fire chief: NM Las Conchas fire not burn Los Alamos, confident buffer will protect national lab. http://bit.ly/ioCW6k
leontodd
June 30, 2011

In Española #NM, smoke from the Las Conchas Fire was thick in the air Tuesday: http://wp.me/pJ91e-6Jq #wildfires http://twitpic.com/5ieznc
Photo by bberwyn on twitter

We're watching the Las Conchas #wildfire from our house in Placitas, NM. Godspeed, fire crews. #yikes #besafe http://yfrog.com/gzkpdjgj
Photo by shane_mahoney on twitter

View of Las Conchas fire in Los Alamos, NM, from White Rock - via @LDJeffryes http://twitpic.com/5hqedt
Photo by Breaking on twitter

Las Conchas fire as seem from Rio Rancho, NM #nmfire http://flic.kr/p/9Y83sp
gregjsmith
June 30, 2011

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Non c’è solo la rivoluzione araba. Gabon, Thailandia, Madagascar, Colombia, Uganda. Oscurati dai media mainstream, i quali hanno preferito mettere il silenziatore anche sulla guerra fredda digitale dichiarata da Hillary Clinton.

Una parte del mondo ribolle e ad informare sono gli stessi protagonisti. Semplici cittadini che plasmano il cambiamento, oltre che raccontare in presa diretta rischi e conquiste di tale cambiamento. Il locale diventa globale e viceversa, senza soluzione di continuità. Rispetto al lavoro del ‘giornalista’, è chiaro che il valore aggiunto prodotto dai citizen media acquista sempre più senso e spazio. Come pure (e soprattutto) per tutti quegli individui che dall’altra parte del globo, vogliono sapere e capire, partecipare come possono al nuovo scenario in fieri. Dal villaggio globale al pianeta elettrico il passo è breve.

Come cittadini del mondo, non possiamo più permetterci il lusso di dimenticare certi conflitti o problemi, né tantomeno ignorare le conversazioni sui fatti di ogni giorno in zone geograficamente o culturalmente lontane. Persino i fatti di casa nostra acquistano dinamiche meno buie se l’occhio e l’impegno collettivo spaziano nel “glocale” dei nostri giorni. E il valore aggiunto delle voci globali, del flusso dei citizen media (rumore incluso) è un bene irrinunciabile che richiede attenzione e partecipazione. Proprio come la democrazia.

Leggi l’articolo integrale su L’Indro




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