Se l’informazione è in crisi (anche economica) non mancano mix alternativi e praticabili

01Aug09

Non è certo un mistero che, in questi tempi di crisi economica e di information overload, ogni entità attiva nel mondo dell’informazione, dalle testate mainstream ai citizen media, debba darsi da fare in maniera creativa e innovativa per le modalità di autosostentamento. È quanto va facendo nel suo piccolo anche Global Voices Online, il cui post odierno (in italiano) illustra i passi attivati in questa direzione. “Siamo lieti di annunciare che, nonostante la crisi economica in corso, quasi tutte le nostre spese per il 2009 sono coperte, grazie al supporto delle organizzazioni filantropiche elencate qui. Per assicurare una sostenibilità a lungo termine, stiamo tuttavia cercando di raggiungere un equilibrio fra supporto filantropico, commissioni editoriali, partnership e redistribuzioni di contenuti, buttandoci dentro un pizzico di pubblicità” – spiega la managing director di GV, Georgia Poppelwell (traduzione di Eleonora Pantò). A ribadire insomma che i modelli possibili sono interconnessi, variegati e flessibili, piuttosto che mettersi alla vana ricerca del Sacro Graal, cioè dell’unico business model buono per tutti – così come non esiste “la” killer application del giro high-tech e/o online.

Ovviamente questo mix creativo ha ancora più senso quando si parla dell’opportunità di contenuti (anche) a pagamento prodotti dal “giornalismo dal basso”. Pensando appunto a pratiche integrative tra old & new media, in cui a questi ultimi venga commissionata la copertura più approfondita di determinate aree o argomenti. Dalle (contro)inchieste sul territorio agli aggregatori umani ragionati, dagli editoriali di qualità alle contestualizzazioni mirate, da contenuti iper-locali e rilavorati – situazioni sicuramente alla portata dei soggetti italiani attualmente attivi. Ovvero, riprendendo ancora il post di GV: “Enti e organizzazioni che abbiano interesse a fare informazione su un tema preciso possono finanziare in modo specifico certi contenuti, con il chiaro accordo che non avranno voce in capitolo sulla produzione di tali contenuti. Questo tipo di finanziamento caratterizza il modello delle testate d’informazione a carattere pubblico [in Usa e altri Paesi]. Questa tipologia di entrate è probabilmente destinata a diventare una significativa fonte alternativa di finanziamento.”

Peccato, appunto, che simili inter-azioni e pratiche non facciano parte della tradizione informativo-culturale nostrana, dove neppure enti pubblici come la RAI hanno mai provato a offrire spazi e attenzione in tal senso alla collettività competente, a cittadini motivati e capaci. [Almeno, da quanto mi risulta e in base a esperienze personali con varie testate in questi 10+ anni]. Salvo poi scopiazzare a destra e a manca online, riproporre tranquillamente i video di YouTube e i messaggini di Twitter, appropriandosi al volo di quanto viene prodotto dai citizen media – non di rado senza neppure l’esplicita attibuzione della fonte.

Non che si debba arrivare a commissionamenti o partnership con fior fiore di agenzie, testate e fondazioni cui si riferisce GV, per carità. Sarebbe un passo dal taglio fin troppo anglofono e nord-europeo (moderno?). Come pure eccessivo è sperare in qualche forma di fondi pubblici per (stimolare e sviluppare) progetti e aggregazioni di media partecipativi di base. Eppure, mi sbaglierò, ma oggi questi modelli che vanno emergendo un po’ ovunque sono non solo possibili ma auspicabili e finanche inevitabli – sia per risollevare le sorti del giornalismo (non delle testate in quanto entità commerciali) sia per dare giustamente spazio all’innovazione, alla libera circolazione di cultura e agli stessi giovani motivati in cerca di occupazione. Sempre che, ovvio, si vogliano trovare davvero risposte concrete a questi tempi di crisi…



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