Sul senso e l’utilità di certi contenuti a pagamento – ma dal basso!

27Jul09

$$$ & newspaperCrescono i segnali verso l’avvio in grande scala (o il ritorno) dei contenuti online a pagamento, o meglio: “quality content matters, and people will pay for it”, spiega in un motivato editoriale Sharon Waxman rilanciando la Fortune Brainstorm conference svoltasi nei giorni scorsi a Pasadena. Certo, ancora una volta è un approccio “top-down” proposto dai Big Media come potenziale tappabuchi per la perdurante e diffusa crisi in cui continuano a navigare. Ma è indubbio che quando si tratti di versare l’obolo per accedere a valore aggiunto e contenuti di qualità, i citizen media non sono certo da meno, avendo al proprio arco frecce valide e voci più che legittime nell’ennesimo business model aperto a tutti.

Non è dunque il caso di abboccare all’amo di chi prova a imporre tale tesi per “force people to pay online” o per farci dimenticare la strada senz’uscita volutamente imboccata da gran parte dell’industria dell’informazione. E neppure basta addurre pseudo-motivazioni per cui i giornali a pagamento online sarebbero la naturale estensione di quanto gia’ paghiamo sul web, film, TV shows, musica, etc.: è evidente, puntuallza Jeff Jarvis, come le online news siano “different for many reasons“, cioè un bene di rapido consumo e disponibilità.

Ancor più e meglio, giova ripeterlo: assurdo addossare oggi a lettori e utenti online la responsabilità di “trovare insieme” nuovi modelli commerciali, quando soprattutto in Italia le “grandi” testate hanno fatto e continuano a fare i loro comodi. E se proprio si volesse far loro un favore, e quindi per riflesso “migliorare” il panorama generale anche per (i sempre meno affezionati) lettori, l’unica è incalzarle dal basso tali testate, proporre nuove modalità operative, offrire capacità innovative nel fare informazione, sperimentare con piattaforme di giornalismo partecipato, qui e ora. Smettendola una volta per tutte di occuparci di robe insensate, come il futuro della carta stampata in quanto tale.

Ergo, il trend verso certi contenuti a pagamento non va inteso come mirato ad azzerare la comune pratica dell’informazione libera e condivisa ormai dato di fatto in ogni angolo del pianeta digitale – da Wikipedia all’Open Access. Anzi. Ciò s’incastra bene perfino nel marketing model del “tutto aggratis” con cui molti vorrebbero rapidamente liquidare le tesi di Mr. Chris Anderson, che invece sono ben più articolate includendo fra l’altro quanto segue: “If you give away a large quantity of good content, you can then charge money for the premium content.” Un po’ come per la favoletta della “long tail”, le cose sono (e saranno) un tantinello più complesse di quanto certe fonti vorrebbero farci credere.

Insomma, non si può non essere d’accordo sul fatto che: “The world of content is beginning to be divided into two parts — the broad, “commoditized” stuff that you can find anywhere (celebrity shots, the bloggerhead in his pajamas commenting on events) and premium content that people will pay for”. L’importante però è non lasciare nuovamente in mano ai grandi nomi (dal Wall Street Journal e Bloomberg a FT ed Economist) l’egemonia di queste pratiche e del relativo dibattito, ribadendo piuttosto senso e utilità di certi contenuti a pagamento anche e soprattuto quando “prodotti dal basso”. Dalle inchieste sul territorio agli aggregatori umani ragionati, dagli editoriali di qualità alle contestualizzazioni mirate, da contenuti iper-locali e rilavorati all’attento ripescaggio delle conversazioni globali – queste ed altre le pratiche su cui i citizen media possono (devono?) imparare a capitalizzare onde proporsi al pubblico in quanto vera e propria fonte d’informazione. Senza contare che oggigiorno, dovendo metter mano al portafogli, molti di noi preferiscano sostenere progetti indipendenti piuttosto che i (presunti) Big Media, giusto? 😉



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